Papa francesco: il paradiso non esiste

Papa francesco: il paradiso non esiste

Papa Francesco e il “Paradiso senza numero chiuso”: escatologia in briciole, si sarebbe detto una volta. Certo colpisce, nella predicazione del Pontefice regnante che tanto privilegia il sociale, una sosta su una tematica squisitamente teologica. L’occasione è stata il consueto Angelus domenicale, il 25 agosto scorso, quando ha parlato del Paradiso. E di come fare per raggiungerlo. Uno spunto fornito naturalmente dal Vangelo del giorno (Lc 13, 22-30). Il Papa, con le consuete chiarezza e concisione, è andato al cuore del problema. Vediamo senz’altro cos’ha detto, prima di ragionarci attorno brevemente.

L’aldilà si decide adesso

Il rebus di quello che siamo soliti chiamare “aldilà” va risolto di qua, qui e ora. Ecco perché la pericope evangelica lucana ingloba nel discorso su quanti si salveranno la parabola della porta stretta. La nostra libertà e la nostra responsabilità si giocano nel tempo in cui viviamo.

Amare Dio con tutto noi stessi e il prossimo come noi stessi – è questo il giogo soave di Cristo – non è facile. È nondimeno necessario, se si vuole (seguendo la parabola) essere ammessi dal padrone di casa al banchetto finale. E farlo significa sforzarsi di entrare per la porta stretta. Come quella che, nelle città antiche, veniva lasciata aperta di notte per le emergenze, mentre le grandi porte venivano sbarrate per difendersi dai nemici.

L’importante non è dunque quanti possono riuscire a salvarsi, perché Dio è aperto a tutti. Il punto è essere con Dio – cioè vivere secondo la volontà del Padre come rivelata da Gesù – sempre, ogni giorno.

La teologia non è il catechismo

Sin qui, la catechesi domenicale del Papa. Attenzione bene ai termini, il cui impiego non è casuale. Papa Francesco, parlando del Paradiso ai fedeli in piazza San Pietro, ha fatto catechesi, non teologia. Siccome però l’argomento era prettamente teologico – appunto, l’escatologia – ecco che il Papa ha finito per dispensare teologia in briciole.

Conviene riflettere sulla differenza tra catechizzare e fare teologia. Col primo termine s’intende fornire le basi della conoscenza, i rudimenti. Questi ultimi contengono certamente l’essenziale, ma è più questione di metodo che non di contenuto. Fare teologia significa riflettere, cioè affrontare criticamente le questioni riguardanti la fede nella loro complessità. Per fare teologia occorre, quindi, anche cultura: storica, linguistica, filosofica.

È certo però che, in una prospettiva di fede, il catechismo precede la teologia nella formazione del credente. Se poi la pratica religiosa si affievolisce proprio quando si dovrebbe passare (nella vita personale) dai rudimenti alla riflessione, ecco che la teologia latita, perché senza le basi non si può innalzare l’edificio.

I “novissimi” della teologia storica 

Vogliamo provare (sommariamente, s’intende e senza troppe pretese) ad abbozzare un discorso di teologia parlando di escatologia?
Cominciamo col dire allora che
ἔσχατος (eschatos) in greco è un aggettivo che significa estremo, in questo caso in ordine di tempo. Insomma: ultimo o ultimissimo, com’è invalso nell’uso. In teologia latina, coerentemente con l’etimologia, il tema è diventato quello dei “novissimi”: il destino ultimo riservato all’uomo e al cosmo nell’economia divina.

I “novissimi” tradizionalmente sono 4: morte, giudizio, inferno e paradiso. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ne tratta nei nn. 1020-1065: è la parte dedicata al credere la vita eterna. Vi si parla anche del purgatorio, che è un inevitabile (si direbbe!) stadio di purificazione prima della visione di Dio. Non trova più spazio invece la dottrina del limbo, un tempo impiegata dalla Chiesa per designare la condizione delle persone prive senza loro colpa del battesimo.

Fare teologia ripensando i “novissimi” vuol dire avere consapevolezza che inferno, purgatorio e paradiso sono stati, condizioni, e non luoghi. La tendenza a localizzare e temporizzare il rapporto diretto con Dio, che non è soggetto al tempo e allo spazio, va corretta. Nel senso che occorre comprenderne la portata pastorale di appello alla responsabilità e alla conversione.

Inferno e paradiso, poi, sono termini non pertinenti alla cultura religiosa originaria del cristianesimo, che è il giudaismo. L’escatologia giudaica parlava infatti rispettivamente di “sheol” (luogo della non-relazione) e di ritorno al giardino (“gan”) della Creazione. L’inferno invece è stato per lo più spiegato come il contrario della felicità: di qui fuoco e fiamme, nonché pene e torture varie. Mentre il paradiso è un termine recepito dalla cultura persiana.

L’inferno è un articolo di fede 

In generale, la vita eterna del credo cristiano – cioè la beatitudine – è stata pensata come un prolungamento senza fine del tempo storico. Non è così, evidentemente, e non tanto perché qualcuno ne sappia e possa parlarne più e meglio di altri. Non è così semplicemente perché si tratta senza dubbio di un’altra dimensione. Il punto omega verso cui tendiamo per la fede cristiana non è precisamente configurato, se non nella speranza di essere con Dio in Cristo risorto. Ma nella fede manifestata nel battesimo (che rimanda al punto alfa, per intenderci), il punto omega è già ricompreso. Il senso dell’esistenza è perciò quello manifestato da Gesù nella sua vita: amore di Dio e amore del prossimo.

Se ne può concludere, ricollegandoci a Papa Francesco e alla tradizione bimillenaria della Chiesa, che la salvezza non è questione di tempi e di numeri, ma di amore in vita. Il giudizio (messo a parte il tema, ancora più difficile, del rapporto tra quello particolare o individuale e quello universale) l’abbiamo già espresso con la nostra vita. Dio non condanna, ne prende atto.

Quanto infine al tema della dannazione eterna (privazione di Dio senza rimedio), per la Chiesa resta una temibile possibilità della libertà umana. Ma san Giovanni Paolo II, nella catechesi del mercoledì del 28 luglio 1999, adombrò velatamente il dubbio che alcuni esseri umani vi siano effettivamente coinvolti.

Papa francesco: il paradiso non esiste

Corrado Cavallotti

Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.